Alcuni anni fa, nel corso di una ricerca mi sono imbattuto in opere attribuite a Pieter Brueghel, pittore fiammingo del cinquecento, definito da molti “pittore del mondo contadino”, e sono rimasto molto colpito da un’opera in particolare conservata ad Anversa nel Museo Mayer van den Bergh e datata 1558, che consiste in una tavola, suddivisa in dodici parti, ciascuna riportante la rappresentazione di un proverbio tramite la raffigurazione di un personaggio.
Personalmente credo che in quest’opera si possa comprendere l’universalità dell’arte, in pratica l’idea che attraverso di essa si possa infrangere ogni frontiera: geografica, culturale, educativa.
Appare chiaro che le dodici immaginette, in origine separate e usate solitamente come piatto, servano da siparietto ad altrettante messe in scena dei rispettivi proverbi a cui fanno esplicito riferimento e vanno inserite nella tradizione orale della saggezza popolare.
Personalmente credo che in quest’opera si possa comprendere l’universalità dell’arte, in pratica l’idea che attraverso di essa si possa infrangere ogni frontiera: geografica, culturale, educativa.
Appare chiaro che le dodici immaginette, in origine separate e usate solitamente come piatto, servano da siparietto ad altrettante messe in scena dei rispettivi proverbi a cui fanno esplicito riferimento e vanno inserite nella tradizione orale della saggezza popolare.
Andiamo ad analizzare le dodici figure con le rispettive scritte.
Da sinistra, nell’ordine superiore si trovano: “Bere di continuo, anche da ubriachi, induce in povertà, disonora il nome e porta alla rovina”; “Io sono un opportunista, d’un genere tale per cui voglio sempre il mantello dove il vento spira”; “Porto il fuoco in una mano, l’acqua nell’altra, e passo il tempo con pettegoli e donnette” (ovvero le megere seminano discordia); “Nel fare baldoria nessuno mi teneva testa; adesso, finito in miseria, me ne resto tra due sedie, seduto sulla cenere”.
Nell’ordine centrale, sempre da sinistra, si trovano: “Il vitello mi guarda con occhio smarrito; che serve se chiudo il pozzo quando ormai è annegato?” (ovvero il rimorso tardivo non giova a nulla o è inutile piangere sul latte versato); “Se a qualcuno piace faticare inutilmente, getti rose ai porci” (ovvero le buone azioni vanno fatte a chi le merita); “L’armatura fa di me un coraggioso guerriero, e attacco un campanellino al gatto” (ovvero la tenuta militare rende arditi anche i paurosi); “La fortuna del vicino mi strazia il cuore; non sopporto che il sole si specchi nell’acqua” (ovvero l’invidia impedisce la felicità).
Nel registro inferiore, sempre da sinistra, si trovano: “Sono bellicoso, fiero e iracondo; perciò batto la testa nel muro” (ovvero il collerico è causa dei propri problemi quindi può solo fare “cap e mur”) ; “A me tocca il magro, il grasso agli altri: e pesco sempre fuori dalla rete” (ovvero l’incapace si arrabatta inutilmente); “Mi copro con un mantello celeste; ma quanto più mi nascondo, tanto più mi riconoscono” (ovvero l’infedeltà della moglie rende famoso il marito, suo malgrado); “A qualunque cosa io miri, non riesco mai ad ottenerla: orino sempre contro la luna” (ovvero è inutile avere aspirazioni troppo elevate)
Conosco molte persone a cui queste sentenze vestono a pennello, come penso ne conosciate anche voi, e la cosa straordinaria è che molti di questi proverbi sopravvivono, anche se in forma diversa, in molti dialetti nostrani, pertanto essi potrebbero essere propri della cultura popolare e contadina di ogni parte d’Europa.
Da sinistra, nell’ordine superiore si trovano: “Bere di continuo, anche da ubriachi, induce in povertà, disonora il nome e porta alla rovina”; “Io sono un opportunista, d’un genere tale per cui voglio sempre il mantello dove il vento spira”; “Porto il fuoco in una mano, l’acqua nell’altra, e passo il tempo con pettegoli e donnette” (ovvero le megere seminano discordia); “Nel fare baldoria nessuno mi teneva testa; adesso, finito in miseria, me ne resto tra due sedie, seduto sulla cenere”.
Nell’ordine centrale, sempre da sinistra, si trovano: “Il vitello mi guarda con occhio smarrito; che serve se chiudo il pozzo quando ormai è annegato?” (ovvero il rimorso tardivo non giova a nulla o è inutile piangere sul latte versato); “Se a qualcuno piace faticare inutilmente, getti rose ai porci” (ovvero le buone azioni vanno fatte a chi le merita); “L’armatura fa di me un coraggioso guerriero, e attacco un campanellino al gatto” (ovvero la tenuta militare rende arditi anche i paurosi); “La fortuna del vicino mi strazia il cuore; non sopporto che il sole si specchi nell’acqua” (ovvero l’invidia impedisce la felicità).
Nel registro inferiore, sempre da sinistra, si trovano: “Sono bellicoso, fiero e iracondo; perciò batto la testa nel muro” (ovvero il collerico è causa dei propri problemi quindi può solo fare “cap e mur”) ; “A me tocca il magro, il grasso agli altri: e pesco sempre fuori dalla rete” (ovvero l’incapace si arrabatta inutilmente); “Mi copro con un mantello celeste; ma quanto più mi nascondo, tanto più mi riconoscono” (ovvero l’infedeltà della moglie rende famoso il marito, suo malgrado); “A qualunque cosa io miri, non riesco mai ad ottenerla: orino sempre contro la luna” (ovvero è inutile avere aspirazioni troppo elevate)
Conosco molte persone a cui queste sentenze vestono a pennello, come penso ne conosciate anche voi, e la cosa straordinaria è che molti di questi proverbi sopravvivono, anche se in forma diversa, in molti dialetti nostrani, pertanto essi potrebbero essere propri della cultura popolare e contadina di ogni parte d’Europa.
Pertanto, vi esorto a confrontare questi da me riportati, con quelli della tradizione popolare napoletana e non resta che dire: ad ognuno il suo.
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